Tanti ne sono passati, da quel ventuno maggio duemilaquattro. Oggi, a specchio di calendario.
Venerdì: ci perseguita questo giorno. È stato il mio primo grande dolore, uno strappo eterno al nostro rapporto endemico, come lo chiamavi tu. Che non riuscivo ad accettare, anche se la malattia ci aveva in qualche modo preparati all’addio.
Pensavo di non poter soffrire di più. In fondo, è la morte di un genitore nell’immaginario collettivo la sofferenza più lacerante.
Mi sbagliavo. Dovevo viverne altre, e una ancora più atroce, devastante, da genitore che sopravvive a suo figlio. Maledetto destino, che non è stato soddisfatto del mio dolore per la tua morte.
Cinico, ha deciso che si poteva andare oltre. Esiste una angoscia ancora più funesta e lacerante. E io, scelta per viverla fino al mio ultimo respiro.
Mio figlio.
Ora, posso dire di aver toccato il fondo.
Più giù non si può andare.
Il fondo.
È un luogo faticoso, spesso non voluto.
A volte talmente lontano che non lo vediamo nemmeno, ma sta lì per tutti.
Ti ci trovi sbattuto da un crollo che ti toglie la “terra sotto i piedi “.
C’è chi lo tocca, e chi non saprà mai quanto laggiù manchi l’aria.
Chi lo conosce toccandolo, o vedendolo così vicino da sfiorarlo, acquista però una consapevolezza diversa della vita.
Capisce su quali fondamenta deve ricostruire.
Ogni terremoto importante lascia macerie, ma chi SOPRAVVIVE vuole ricostruire, deve ricostruire, tra fatica e lacrime, sicuro che niente sarà più come prima.
Perché dal fondo si può solo risalire.❤️