Cinquantuno mesi. Soffocano, come il caldo che da tante settimane la fa da padrone. Messo da tutti a confronto con quel lontano luglio del 2003.
Non fu il caldo ad avere la meglio su di me in quella occasione, ma la diagnosi della biopsia di mio padre. Non era quella canicola rovente a offuscare la mia mente, ma quel referto terribile, a condannare la vita di mio padre fino a prendersela per sempre, appena dieci mesi dopo.
Seduta su una panchina nei giardini del Forlanini, a fumare e a pensare. Mi cadde la borsa, tutto si rovesciò. Come la mia testa inabile a incassare il colpo.
Vedevo il calore salire da quell’asfalto infuocato, e guardavo la mia borsa ribaltata, incapace di qualsiasi azione ponderata. Una signora si avvicinò, raccolse le mie cose e la mia borsa.
Mi guardò. Vide i miei occhi e bastarono quelli a frenare ogni tentativo di approccio. In silenzio abbozzò un sorriso, mise tutte le mie cose sulla panchina, e se ne andò.
Rimasi inchiodata a quella panchina e a quel dolore fino a cinquantuno mesi fa, quando un destino bastardo decise che quella sofferenza nella mia vita non bastava.
Ne aggiunse altra, straziante e incomprensibile, nel suo essere innaturale.
Ynwa vita mia