Casualmente inciampo in rete, nel nome del dottor Luigi Colusso. Leggo. Medico che da molti anni si occupa di persone in lutto.
Un libro, il suo, che cercherò di acquistare al più presto. Per divorarlo, io bulimica di pagine scritte. Con la speranza di trovare conforto, con la certezza di scovare punti di riflessione.
“Il colloquio con le persone in lutto”, continuo a leggere, si propone quale accompagnamento nell’elaborazione della perdita. Ma ciò che già porta a specchiarmi nelle sue parole è una affermazione, crudele quanto veritiera.
“Per elaborare la morte di un figlio, prima bisogna accettare la propria rabbia”. Eccolo, il primo spunto di riflessione. La mia rabbia.
La conosco, e la temo. Argomento sul quale stiamo iniziando a lavorare, io e la mia psicologa, mio Giano bifronte a palesarmi tutto e il contrario di tutto.
La mia rabbia. È lei che condiziona la mia malconcia quotidianità. È lei a gestire le mie azioni e i miei pensieri. È lei che domina le mie sconquassate emozioni.
E io, fragile e impotente, mi lascio influenzare da questo maroso irascibile. La rabbia, questo sentimento che ormai mi appartiene, come una seconda pelle. A imprimere a fuoco la certezza della assenza, quella di mio figlio, che mi rifiuto di accettare.
Rabbia e rifiuto, mi inchiodano a terra stordita e persa. Non permettendomi di guardare oltre.
Perché il mio oltre era pieno anche del mio Emiliano. E ora scorgo sempre un vuoto. Quel vuoto che mai si riempirà, pur elaborando rabbia e lutto.