Due i significati di questa parola, che mi calzano, oggi, come un vestito a pelle. Cinquina, cinque cose uguali come i cinque mesi vissuti in fotocopia da qual maledetto ventisette aprile. E cinquina come schiaffo, il manrovescio che un destino scorretto e disonesto ha impresso nella nostra vita, marchiandone a fuoco la sua impronta.
Cinque mesi, trascorsi con e nella tua assenza.
Centocinquantaquattro giorni nei quali non c’è stato istante ch’io abbia vissuto lontano dalla sofferenza, pur nella finzione di una quotidianità diversa che deve andare avanti.
Non c’è stato un attimo nel quale il tuo pensiero si è staccato dalla mia anima, a tenermi ancorata a una disperazione che, almeno per ora, non sembra affievolirsi ma che, anzi, sembra crescere continuamente, svezzamento appena iniziato.
Cinquina funesta, a ricordarmi che il tempo continua a scorrere, pallottoliere perpetuo che si fermerà soltanto con la mia fine. Cinque mesi nei quali ho immaginato te qui con me, a vagheggiare su ciò che poteva essere, e che non è stato.
Ho disegnato la tua estate, a tenere compagnia alla mia solitudine, rivedendoti nei momenti che condividevamo, e in quelli che mi raccontavi. Altalena di ricordi, necessari da vivere per metabolizzare, forse un giorno, quanto ci è accaduto.
Ma ora sono qua, a contare il tempo che passa, a cercare di dargli un significato, pur sapendo che un senso, tutto questo, mai lo troverà.
E questa cinquina lascia sul mio viso un segno indelebile, che nessun trucco o artificio potrà nascondere. Schiaffo a tradimento di una vita, ormai irreversibilmente compromessa dalla tua assenza perpetua.
Questa è l’unica certezza, nella mia frantumata esistenza.